Le voci di Marrakech è un diario di viaggio scritto da Elias Canetti e pubblicato nel 1967. Io ho letto l’edizione de “Gli Adelphi” del 2004.
Canetti soggiornò per un breve periodo a Marrakech nel 1954, e nel libro ci offre una serie di impressioni e sensazioni raccolte durante la sua permanenza nella città marocchina.
Non si tratta quindi di un romanzo o di un racconto con una trama ben definita. Si può dire che non vi sia né un inizio né una fine, e nemmeno una introduzione; le due nozioni biografiche riportate sopra si ricavano da altre fonti. Si tratta semplicemente di appunti, ma appunti scritti da un visitatore con una grandissima capacità di scrittura che riesce a cogliere e descrivere magistralmente i suoni, le atmosfere, le sensazioni (non a caso ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura).
Ogni capitolo è un breve racconto; si parte con la descrizione del mercato dei cammelli, per poi andare nel suk, nel quartiere ebraico, nel cimitero, ecc. Canetti ci conduce in un mondo di colori, profumi e suoni. La scrittura di Canetti è densa e forte nelle immagini e nelle descrizioni.
Ogni singola riga del libro è una meraviglia, e per la prosa e per la capacità di Canetti di cogliere le forme e le anime delle cose. Solo per fornire qualche breve esempio, si veda come l’Autore riesce a descrivere in pochissime parole il tramonto (in questo caso sulle mura di Marrakech, ma in realtà le sensazioni sono estensibili a qualunque tramonto in qualunque luogo):
“Pa4ssammo davanti a un altro settore delle mura. Era sera, il bagliore rosso sul muro si stava spegnendo. Finché mi fu possibile, non staccai gli occhi dal muro ed ero felice per il suo lento mutar di colore“.
Esemplari sono anche le riflessioni sulle differenze tra il cimitero europeo e il cimitero ebraico di Marrakech, soprattutto nella parte sulla struttura di quelli a noi più vicini:
Nelle altre parti del mondo i cimiteri sono allestiti in modo tale da suscitare nei viventi un senso di felicità. Sono pieni di vita, ricchi di piante e di uccelli, e il visitatore, unico essere umano tra tanti morti, proprio da questo si sente rallegrato e rinvigorito. La propria condizione gli appare invidiabile. Sulle pietre tombali legge i nomi delle persone: a ciascuno di costoro egli è sopravvissuto.
Senza confessarselo, ha quasi la sensazione di averli vinti uno a uno in duello. È triste, sicuro, per tutta quella gente che non esiste più, ma proprio per questo si sente invincibile. Da che cosa, altrimenti, può derivargli una simile sensazione? Su quale campo di battaglia al mondo potrebbe essere l’unico sopravvissuto? Sta in posizione eretta, è l’unico in piedi tra tutti questi che giacciono supini. Anche gli alberi e le pietre tombali però stanno eretti. Gli alberi piantati e le lapidi erette lo circondano come una specie di eredità, espressamente destinati a fargli piacere.
Su questo deserto cimitero degli ebrei, al contrario, non cresce nulla. Esso è la verità stessa, un lunare paesaggio di morte. All’osservatore non importa affatto di sapere chi giace sottoterra, la cosa gli è cordialmente indifferente. Non si china e non cerca di scoprirlo. Qui sono tutti ammucchiati, come fossero macerie, e si vorrebbe scappar via in fretta, come sciacalli. È il deserto di uomini morti, sul quale non cresce più nulla, l’ultimo, estremo deserto“.
Un altro aspetto che mi ha colpito nell’opera di Canetti è il suo soffermarsi sulle persone, evidenziandone sia l’aspetto fisico sia quello spirituale. Lunghi ritratti sono riservati ai mercanti, agli abitanti del quartiere ebraico, alle donne mussulmane; grande attenzione è riservata alle persone più derelitte come i mendicanti, gli storpi e i malati; soprattutto a questi ultimi, Canetti sembra restituire la dignità attraverso il suo sguardo e le sue riflessioni.
In conclusione, si tratta di un grande libro sulla multietnicità di Marrakech descritta da un grande scrittore.
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